lunedì 21 dicembre 2015

Maledetti tulipani


I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com'è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all'anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

Mi hanno sistemato la testa tra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
passano come gabbiani diretti nell'interno, in cuffia bianca,
le mani affaccendate, ciascuna identica all'altra,
sicché è impossibile dire quante sono.

Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l'acqua
accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
Ora che ho perso me stessa, sono stanca di bagagli -
la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
i miei sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.

Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent'anni
ostinatamente aggrappata al mio nome e al mio indirizzo.
Con l'ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
affondare e sparire, e l'acqua mi ha sommerso.
Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.

Io non volevo fiori, volevo solamente
giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
Come si è liberi, non ti immagini quanto -
È una pace così grande che ti stordisce,
e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
È a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
chiudervi sopra la bocca come un'ostia della Comunione.

Sono troppo rossi, anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.

Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
dove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un'ombra di carta ritagliata
tra l'occhio del sole e l'occhio dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.

Prima del loro arrivo l'aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l'altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l'hanno riempita come un frastuono.
Ora s'impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s'impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.

Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l'amore che mi porta.
L'acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un Paese lontano quanto la salute.


("Tulipani", Sylvia Plath, 18 marzo 1961)


Foto da Flickr, Igor Klisov

giovedì 17 dicembre 2015

Ricomincia l'attesa


Appollaiato in alto sul rigido stecco
Un corvo nero bagnato
Si aggiusta e si riaggiusta le piume nella pioggia.
Non mi aspetto un miracolo
O un evento

Che dia fuoco alla vista
Nel mio occhio, e nemmeno più cerco
Nella stagione mutevole un disegno,
Ma lascio che le foglie maculate cadano come capita,
Senza cerimonia, o presagio.

Benché, lo ammetto, io desideri
Ogni tanto qualche risposta
Dal cielo muto, in verità non posso lamentarmi:
Una luce modesta può sempre
Balzare incandescente

Dal tavolo di una cucina e da una sedia
Come se un ardore celestiale
Si impadronisse a tratti degli oggetti più ottusi
Consacrando così un intervallo
Altrimenti irrilevante

Con l'elargizione di doni, di onore,
Di amore, si potrebbe forse dire. Sia come sia, ora cammino
Guardinga (perché c'è caso che avvenga
Persino in questo grigio panorama in rovina); scettica
Eppure accorta; ignara

Di qualsivoglia angelo scegliesse di avvampare
D'un tratto al mio fianco. So soltanto che un corvo
Che si rassetta le piume può brillare a tal punto
Da afferrare i miei sensi, issare a forza
Le palpebre, e accordare

Una breve tregua alla paura
Della neutralità assoluta. Con un po' di fortuna,
Arrancando testarda in questa stagione
Faticosa, metterò 
Insieme una contentezza,

Più o meno. I miracoli avvengono,
Se vogliamo chiamare miracoli quegli spasmodici
Scherzi di radianza. Ricomincia l'attesa,
La lunga attesa dell'angelo,
Di quella rara, aleatoria discesa.

(Sylvia Plath, Corvo nero in tempo piovoso, 1956)