martedì 26 aprile 2016

Non è teatrale il mio demonio


Non è teatrale il mio demonio
non è mostruoso non ama il fuoco
lui gioca a svuotare le promesse
ad alitare il suo comandamento
tutto il suo verbo in un solo ritornello
tre parole piantate in mezzo agli occhi:
Non rimane niente, non rimane niente,
di questo tempo di tutti i tempi
di tutte le madri le mani dei padri
del tuo viso inciso nei giorni
non rimarrà che il niente,
siamo un urlo nello spazio
per caso viventi per caso amanti
disordine è il padre da onorare.
Questa è la terra dell'inferno
questo niente da tramandare
niente da difendere niente da sperare

(da Storia d'amoreDaniele Mencarelli, LietoColle, 2015)

domenica 24 aprile 2016

E la morte non avrà più dominio


Nel 1933 Dylan Thomas scrive questa poesia, dai potenti tratti visionari, così tipici della sua scrittura in versi.

Dentro una visione complessivamente tragica dell'esistenza, caratterizzata dal dualismo nascita/morte e utero/tomba (womb/tomb), si aprono varchi che verrebbe da chiamare di speranza o di illuminazione, in cui la forza che nella verde miccia spinge il fiore non è destinata a spegnersi.

In E la morte non avrà più domino si affaccia il tema della Resurrezione. I termini non sono immediatamente confessionali, ma il rimando implicito è al San Paolo della Lettera ai Romani (6-9): Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui.

E la morte non avrà più dominio. 
I morti nudi saranno una cosa 
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente; 
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse, 
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle; 
Benché impazziscano saranno sani di mente, 
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla, 
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo; 
E la morte non avrà più dominio. 

E la morte non avrà più dominio. 
Sotto i meandri del mare 
Giacendo a lungo non moriranno nel vento; 
Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono, 
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno; 
Si spaccherà la fede in quelle mani 
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte; 
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno; 
E la morte non avrà più dominio. 

E la morte non avrà più dominio. 
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi, 
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare; 
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore 
Mai più sfidare i colpi della pioggia; 
Ma benché pazzi e morti stecchiti, 
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite; 
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà; 
E la morte non avrà più dominio. 

L'immagine finale del sole mi richiama i versi finali di Visione e preghiera, sempre di D. Thomas:

Io volto l'angolo della preghiera e ardo
Benedetto dall'improvviso / Sole (...)
Oh lasciate che egli / Mi ustioni e mi anneghi 
Nella sua cosmica ferita (...) 
Ora io sono perduto in colui che
Acceca. Il sole rugge alla fine della preghiera



(Dylan Thomas, Poesie, Einaudi. Traduzione di Ariodante)


sabato 23 aprile 2016

Prima che io bussassi


Prima che io bussassi è una poesia di Dylan Thomas del 1933.

In questo testo il poeta opera una drammatica identificazione tra la nascita e la vita dell'uomo e la passione di Cristo. Anzi addirittura questa identificazione avviene ancora prima della nascita, le tappe della passione si compiono già prima di bussare alla vita, prima dell'uscita dal grembo: ancora ingeneratosubii il martirio.

Si tratta di un tema ricorrente nella poesia di Dylan Thomas, che nella nascita legge drammaticamente un anticipo di condanna a morte: 

E il grembo insinua una morte / mentre fuoriesce la vita (Un processo nel clima del cuore)

Una condanna che non riguarda solo l'uomo, ma l'intero creato:

Già nella ghianda è abbattuta la quercia / E il falco uccide lo scricciolo nell'uovo (Ballata dell'esca dalle lunghe gambe)

L'esistenza, il tempo (Uccidi il Tempo!) non fa che confermare questo amaro destino: la creatura mortale è sospinta alla deriva, capace di opporre alla morte una ben flebile resistenza (E fui abbattuto dalla piuma della morte).

La storia della sofferenza umana coincide con quella della croce, in una prospettiva espressamente religiosa. La figura di Cristo e la parabola della sua Incarnazione si sovrappone a quella del poeta, che termina invocando pietà per Colui / che usò per armatura la mia carne e le ossa / e uso doppiezza al grembo di mia madre, vale a dire il ventre di Maria, ferito ben due volte dalla nascita e dalla crocifissione.


Prima che io bussassi ed entrasse la carne,
Con liquide nocche battute sul ventre,
Io che ero informe come l'acqua
Che formava il Giordano vicino alla mia casa
Ero fratello della figlia di Mnetha
E sorella del verme generante.

Io che ero sordo a primavera e estate,
Che non sapevo il nome della luna e del sole,
Sentivo il tonfo sotto l'armatura 
Della mia carne, forma ancora fusa,
Le stelle plumbee, il maglio piovoso
Che mio padre sferrava dalla cupola.

Conobbi il messaggio dell'inverno,
Le frecce della grandine, la neve infantile,
E il vento corteggiava mia sorella;
Il vento balzò in me, la rugiada infernale;
Le mie vene fluivano con il climad'oriente;
Non generato conobbi il giorno e la notte.

Ancora ingenerato, subii il martirio;
Il cavalletto dei sogni le mie ossa liliali
Attorcigliò in un vivo monogramma,
La carne fu tagliata a incrociare le linee
Di croci del patibolo sul fegato
E le spine dei rovi nel cervello grondante.

La mia gola ebbe sete prima della struttura
Di pelle e di vene intorno al pozzo
Dove parole e acqua formano una mistura
Che non fallisce finché scorre il sangue;
Il mio cuore conobbe l'amore, il mio ventre la fame;
Sentii l'odore del verme nelle feci.

E il tempo sospinse alla deriva
O in fondo ai mari la mia creatura mortale
Avvisata della salata avventura
Di maree che mai toccano le rive.
Io che ero ricco fui reso più ricco
Sorseggiando alla vite dei giorni.

Nato di carne e spirito, non ero
Né spirito né uomo, ma un fantasma mortale.
E fui abbattuto dalla piuma della morte.
Io fui un mortale fino all'ultimo 
Lungo sospiro che recò a mio padre
Il messaggio del suo morente cristo.

O voi che v'inchinate alla croce e all'altare,
Abbiate memoria di me e pietà di Colui
Che usò per armatura la mia carne e le ossa
E usò doppiezza al grembo di mia madre. 



(Dylan Thomas, Poesie, Einaudi. Traduzione di Ariodante Marianni)